L’origine di questa graminacea fonda le
proprie radici più nella leggenda che nella storia. C’è chi ritiene che le sue origini
siano egiziane e chi invece sostiene sia nata nell’Asia occidentale, sulle rive
dell’Eufrate, dove è stato rinvenuto più di 5000 anni fa. Le circa 1.700
varietà esistenti rendono possibile la sua crescita in terreni e stagioni
diverse. Come dire… ogni uomo e ogni terra del mondo ha diritto al suo grano. Nelle ritualità agresti il grano è un elemento di centrale
interesse. Su di esso convergono tutte le cerimonie atte a propiziarsi la
fecondità della terra e i favori degli dei.
Il riflesso mitico del decadere e del risorgere della vegetazione,
oltre che nel culto di Dioniso, si trova, con esplicito riferimento al grano,
nel mito greco di Demetra e Persefone,
nell’interpretazione poetica di Omero. La dea delle messi, Demetra, aveva una
figlia di nome Persefone, avuta dal dio Zeus. Un
giorno, mentre la giovinetta «stava raccogliendo rose e gigli in un fresco
prato, la terra si spalancò e Ade, re dei morti, uscendo fuori dall’abisso, la
rapì sul carro d’oro per farla sua sposa e regina del tenebroso mondo
sotterraneo». La madre, «in un manto nero di lutto», la cercò invano «per terra
e per mare». Sconvolta dal dolore e dall’ira, Demetra dispose che i semi di
grano non germogliassero più sulla terra, minacciando l’Olimpo di non far crescere
mai più frumento. Zeus, allora, per calmare il suo dolore le fece restituire Persefone, col patto però, che per due terzi dell’anno
restasse con la madre e per l’altro terzo con lo sposo Plutone negli oscuri
meandri degli Inferi. E così, secondo la tradizione mitologica, grazie a questo
compromesso fu restituita all’uomo la possibilità di coltivare il grano almeno
una volta l’anno.
La coltivazione del frumento, poco meno di un secolo fa, era scandita
da tempi e abitudini lunghe e laboriose. Le procedure
arcaiche per arrivare al chicco di grano spesso erano anche ostacolate da terre
malariche, infeconde, arse, rendendo ulteriormente gravoso e pesante il lavoro
del contadino.
In Irpinia, queste pratiche si concentrano nei mesi estivi attraverso
varie ricorrenze che festeggiano le abbondanti messi e celebrano la terra per
propiziarsi i futuri raccolti. Una delle forme più elementari di devozione e di
ringraziamento è rappresentata dall’offerta di grano come misura massima di
riconoscenza.
I CARRI DI PAGLIA
La peste del 1656 aveva causato circa cinquecento morti a Fontanarosa.
La forte paura che simili fenomeni potessero ripetersi indusse gli abitanti
scampati ad aumentare le preghiere ed i riti propiziatori, i voti ai Santi
protettori. Nello stesso periodo in più parti del
IL CARRO DI FONTANAROSA
La forte religiosità, il tenace
attaccamento alle tradizioni, l’amore per la terra hanno generato e tuttora
producono cerimonie celebrative di valenza decisamente arcaica. Il carattere
totemico di queste ritualità è facilmente riconoscibile nella macchina-obelisco
di Fontanarosa.
Ancora una volta è protagonista il grano, sia nelle motivazioni della
festa, sia nella forma delle macchine, tutte ornate o contrappuntate da motivi
e sculture di paglia intrecciata di notevole complessità e bellezza.
La macchina-obelisco di Fontanarosa è chiamata affettuosamente dai
paesani «il carro». Presumibilmente, questo nome ha radici antiche, giacché in
queste zone si usava portare del grano in omaggio alle divinità pagane sopra un
carro trainato dai buoi. Nell’attuale complessione, infatti, sono rimasti
inalterati il carro ed i buoi. Il grano, nei secoli, è invece divenuto sostanza
per i sogni, e lungo l’obelisco, in alto per
Mentre l’obelisco di Mirabella Eclano ha un’aria tipicamente barocca,
quello di Fontanarosa rimanda complessivamente al gotico: a metà
dell’Ottocento, infatti, quando sono stati costruiti entrambi, era in voga
l’eclettismo architettonico, in base al quale si ripescavano e si mescolavano
vecchi stili per nuove tecnologie. I due obelischi, quindi, rispecchiano quella
indeterminatezza stilistica che fu propria del loro tempo.
IL CARRO DI MIRABELLA ECLANO
L’appuntamento è fisso: il sabato che
precede la terza domenica di settembre, giorno in onore della Madonna
Addolorata, a cui è dedicata questa singolare macchina da festa, un obelisco
alto circa venticinque metri il cui scheletro è costituito da una struttura di
travi lignee rivestite da pannelli di paglia lavorata a mano. Con una struttura
in legno, costituita da 23 travi soprapposte, secondo una tecnica che
conferisce flessibilità, ma anche praticità di montaggio e smontaggio, dalla
disposizione delle travi, si creano 7 piani, che partendo dal basso, ognuno è
più grande del successivo, gli ultimi tre registri costituiscono la cupola,
sulla cui cima, è fissata la statua della madonna Addolorata, nonché il
principale motivo di questa tradizioneIl
Carro viene trasportato, attraverso i campi e lungo le strade cittadine, da sei
coppie di buoi e da una moltitudine di uomini. Aggrappati alle funi di canapa
che si diramano da esso, i “funaioli” lo tirano a braccia pronti a correre, ad
allentare la presa o a frenarne la corsa, pur di evitare l’evento più temuto,
una rovinosa caduta considerata dai protagonisti del rito
foriera di sventure. Nel 1881 e del 1961 il
Carro si abbatté al suolo, annunciando la carestia che colpì l’Irpinia nel 1882
e il terremoto del 1962. Questo intreccio di emozioni così diverse si protrae
per tutta la durata della “tirata” (circa cinque ore) e si conclude con il
trasporto in trionfo del timoniere e con la
benedizione degli animali davanti alla chiesa dedicata alla Madonna Addolorata.
IL GIGLIO DI FLUMERI
Il Giglio di Flumeri, a differenza degli obelischi di Fontanarosa e di
Mirabella, conserva ancora la severità dell’arcaico totem. I secoli non
sembrano passati: forse gli interventi artistici sono stati ritenuti inutili
orpelli, forse si è voluto lasciare al grano la sua vera identità per rendere
più diretto il rapporto con il Santo. Anche qui a proteggere il paese è
San Rocco, che con la sua potenza taumaturgica tenne lontano le malattie
durante la buia notte della peste e del colera.
Il Giglio di Flumeri, inoltre, non ha le caratteristiche della macchina
scenica: è un edificio rigido, non ha snodi ed è alto circa venti metri, a
differenza degli obelischi che ondeggiano col proprio asse e rasentano i trenta
metri. Il grande interesse del Giglio risiede nel modo in cui è disposto il
grano. Probabilmente questa particolare disposizione è antica di millenni. Vi
sono le tracce di un affascinante primitivismo che si è protratto nei secoli, di
una tradizione trasmessa senza l’aiuto di una scuola, di un libro.
La manifestazione nacque come evoluzione dell'usanza di donare a San
Rocco una parte simbolica del raccolto estivo: il grano appena mietuto veniva
utilizzato per adornare dei carrettini che venivano poi trascinati da
"pariglie di uovi" (coppie di buoi)
formando una sorta di processione.
Da ciò è stata, in epoca moderna, creata la formula della tirata dei
carri, che è ormai più una sfida tra contrade che un simbolo di devozione.
Ciascuna zona del paese provvede a progettare e costruire i carri nel
modo più fantasioso possibile e a decorarli interamente di grano e paglia
(con l'ausilio di pochi altri materiali, quali quadretti
raffiguranti san Rocco e pannelli in legno).
Il pomeriggio del 15 agosto i carri creati vengono riuniti in
prossimità del convento dei francescani frigentini e
vengono trascinati fino al centro del paese da buoi fatti arrivare
appositamente dalla Puglia oppure da trattori. I carri vengono quindi lasciati
agli occhi dei visitatori nel parcheggio antistante
IL GIGLIO DI VILLANOVA DEL BATTISTA
Risale al 1800 come offerta della famiglia Ciccone
al Santo Protettore GIOVANNI IL BATTISTA, realizzato con paglia intrecciata.
Prima del 1930 gli obelischi erano due. Il primo era alto